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Terni : Crisi e lo sviluppo economico della Città
Al Sindaco del Comune di Terni
Atto di indirizzo:integrazione all’atto di indirizzo sulla crisi e lo sviluppo economico della Città.
Premesso che è abbastanza scontato che le prospettive di una ripresa occupazionale, sono ancora lontane, per cui la città resta in viva fibrillazione.
Tenuto conto dell’atto d’indirizzo presentato il 12 ottobre 2009 dal Gruppo RC/CI e dell’atto di indirizzo votato, nel dispositivo, all’unanimità dal Consiglio comunale il 15 marzo 2010.
Considerato che il risveglio del mercato del lavoro, sostenuto a livello nazionale, regionale e locale, si fonda su dati che solo apparentemente lo fanno apparire in recupero, perché rapportati ad una fase di riferimento negativa.
Tenuto conto che anche le dichiarazioni di Antonio Campanile, Presidente di Confindustria di Perugia, ricalcano lo stesso metodo adottato, da un anno a questa parte, dal governo: prima negando l’esistenza della crisi, poi dichiarandone il superamento con teorie propagandistiche.
Preso atto che, nella realtà , fino ad ora sono stati i lavoratori a pagare la crisi e, fra essi, i precari a subire il danno maggiore.
Osservato che gli strumenti di ammortizzazione sociale hanno inciso solo in parte nella riduzione degli effetti tragici della crisi occupazionale escludendo chi già si trovava a lavorare senza alcuna sicurezza di continuità.
Preso atto che alcuni settori produttivi locali come il chimico, la meccanica, ma anche il commercio e l’artigianato soffrono il blocco economico, quale effetto del contenimento del mercato.
Valutato che non è più tempo di stare con le mani in mano ad aspettare che la crisi passi: troppe sarebbero le vittime.
Stimato che occorre riesaminare il lavoro nelle sue componenti economiche e sociali, organizzative e programmatiche. In una parola, al lavoro come ‘sistema’ per assicurare non solo la continuità agli occupati, ma garantire l’apporto qualificato agli imprenditori e il sostegno all’intera economia territoriale.
Per essere più chiari, bisogna partire da elementi di fatto che danno un quadro della reale situazione in cui l’economia si dibatte: solo il 4.4% dei laureati viene assorbito dal mondo del lavoro nell’industria e nel terziario. L’anomalia, tanto più evidente quanto più ci si raffronta con le economie più evolute, si può spiegare sia con l’interpretazione vetusta del concetto di imprenditoria legata ancora a figure di datori di lavoro ignoranti e danarosi, sia con lo scarso ricorso alla ricerca, vista come una spesa superflua per chi ha sguardi limitati;la filiera ‘scuola-università-ricerca-impresa’ ha interruzioni paurose che non ci si è preoccupati di riparare. E’ un po’ un acquedotto con migliaia di perdite e con l’effetto di far costare troppo il prodotto trasportato. Quando questo assumerà un peso insostenibile ci si accorgerà dell’errore del mancato intervento. In tale filiera l’innovazione non riesce a trovare posto, la distanza fra una postazione e l’altra è enormemente maggiore di quanto sarebbe lecito attendersi. Tempi dilatati e conduzione padronale dell’azienda stanno, dunque, all’origine di una inefficace crescita organica; il mercato nato dalla globalizzazione ha totalmente bocciato percorsi produttivi fra aziende di settore, parimenti impegnate, che non sanno dialogare e programmare fra loro la filiera realizzativa . Ciò significa che nella produzione di un oggetto che richiede, nella componentistica, il supporto di più industrie, tutte le aziende coinvolte rischiano di soffrire l’eventuale crisi di una di esse, con grave, consequenziale, danno occupazionale.
Quale soluzione, dunque? E’ auspicabile che le imprese si organizzino in rete, che abbiano coscienza e conoscenza innovativa, che scambino informazioni tese al miglioramento, che sviluppino la ricerca, che si affidino ai centri universitari vicini per il supporto tecnologico, che ricorrano più spesso alla collaborazione di laureati, che tengano costante attenzione alle variazioni di mercato e dispongano di personale in grado di valutare gli effetti dei cambiamenti in atto.
L’alternativa è la precarietà non solo occupazionale, fenomeno che assilla particolarmente i nostri giovani, ma anche quella di idee e di progetti a lungo termine da parte degli imprenditori, con effetti tragici sugli investimenti o sulle capacità di adattamento delle aziende a nuove esigenze di mercato.
A questo proposito, uno degli aspetti che si legano al dramma della perdita di lavoro è la necessità di riconversione delle conoscenze dell’ex-dipendente, o semplicemente l’aggiornamento o l’ampliamento dei saperi professionali, affidato a strutture extra-scolastiche, meno inclini, per necessità e vocazione, a dotare il disoccupato delle nuove armi conoscitive di cui necessita per accedere a nuove occupazioni. In materia si assiste, invece, all’asfissia dei Centri Territoriali (poco onerosi e più qualificati), a vantaggio di decine e decine di agenzie formative private, senza trascorsi e senza bagagli culturali.
Il mercato del lavoro penalizza, oggi, i giovani, non riconoscendo loro la stabilità, obbligandoli al cambiamento continuo dell’occupazione, finendo così per non approfondire le opportune conoscenze in un unico settore. Peggio ancora, a soffrirne è il lavoro femminile, tutelato solo parzialmente dalle leggi sulla maternità e dagli abusi delle norme a protezione della donna in ambito famigliare.
L’obiettivo comune è quello di mettere il lavoratore al centro dell’universo-lavoro e concepirlo non come un beneficiato del sistema economico, ma come suo artefice.La visione di armonizzare le risorse disponibili e rivolgerle al soddisfacimento dei bisogni del lavoratore deve essere alla base di scelte e programmi politico-istituzionali.
Fin quando “occupare” qualcuno costituirà un problema, fin quando assicurargli la continuità del lavoro sarà considerata un’impresa immane, fin quando si dovrà ricorrere a scorciatoie per vedere esercitato un diritto, significa che molto resta ancora da fare non solo al politico e all’educatore, ma al cittadino comune che vede calpestata la dignità che gli spetta.
In questa difficoltà contingente, è gravissima, poi, la situazione dei giovani in cerca di primo impiego, costretti spesso a vagare dal sud al nord e perfino all’estero. I dati di emigrazione intellettuale sono preoccupanti, non solo perché privano il territorio di origine delle potenzialità di sviluppo ma soprattutto perché, in pratica, si nega ad una intera generazione, il diritto fondamentale di progettare un futuro certo, il diritto di sapere come costruire la propria vita, di avere una casa, di avere dei figli, di garantirsi una vita normale. In fondo il compito della politica dovrebbe esplicarsi, in primis, nel creare quelle condizioni che permettano alle persone di aspirare ad una vita normale. Un diritto che viene prima di tanti altri.
Ma accanto ai problemi economici, che contrariamente alle previsioni del governo, secondo la Confindustria perdureranno per almeno altri 4 anni, si assiste, non so quanti se ne rendono conto purtroppo, ad un degrado morale e di costume che sinceramente peggiora di giorno in giorno, è una specie di imbarbarimento del nostro Paese che è fondato su categorie come la paura, la cattiveria, la mancanza di senso civico e di rispetto della legalità. Per invertire una siffatta situazione occorre agire sul compito educazionale della scuola e rivedere, in un’ottica nuova, i modelli formativi che attualmente si stanno proponendo.
Un esempio concreto: nella formulazione più recente, l’ultimo anno della scuola dell'obbligo si può assolvere nella formazione professionale. In contro tendenza ai Paesi industrializzati che elevano l’età dell’ obbligo scolastico, il nostro, di fatto, lo riduce. In generale la scuola non deve offrire, come negli anni ’50, lo strumento per imparare un mestiere (Hai imparato a fare il falegname e farai il falegname tutta la vita). Con la tecnologia che cambia ogni sei mesi, il mestiere che ti hanno insegnato non serve più, perché la scienza e la tecnica vanno avanti in un regime vorticoso! Allora la scuola cosa deve dare? Deve dare il senso critico, deve dare elasticità mentale, deve dare cultura e capacità di potersi adeguare ai cambiamenti. Cultura e sapere, devono davvero diventare il nuovo cavallo di battaglia su cui contare per sperare di uscire da altre e più difficili crisi.
Basta rivolgere lo sguardo ad un recente passato: il mitico nord-est d'Italia, Veneto in particolare, ha rappresentato per decenni il motore dell'economia. Il modello qual’era? Il modello era: massima occupazione, ma contemporaneamente la più bassa scolarizzazione d'Italia. All'uscita dalla scuola dell'obbligo, c'era subito il lavoro, si entrava come apprendista o operaio con l'idea di poter fare un domani il piccolo padroncino di se stesso. La piccola impresa si è diffusa nel territorio ed ha funzionato per 10 o 15 anni. Ma poi è successo che molti imprenditori, avendo a che fare con una mano d'opera dequalificata, perché scarsamente scolarizzata, hanno pensato di delocarizzare la loro attività in quei paesi dove la stessa mano d’opera dequalificata era disponibile ad un costo ridotto a 1/3 o a 1/5 di quanto si pagava in Veneto.
Quel modello di piena occupazione e scarsissima scolarizzazione si è rivelato scatenante della crisi economica di quella regione. In un sistema sempre più globalizzato c'è un'unica maniera per essere competitivi e ed è quello di produrre meglio degli altri. In Italia e più in generale in occidente non potremmo mai competere, con l’oriente, sul costo del lavoro, noi potremo essere competitivi se saremo in grado di produrre cose migliori degli altri. E ciò è possibile se la manodopera è migliore, e se si è sul mercato con l'innovazione tecnologica. C'è un dato di cui nessuno parla: l'Italia che ne vantava il primato è crollata nella graduatoria dei brevetti mondiali. L'idea di investire sull'intelligenza sulla creatività, sulla fantasia, non c'è più.
Il nostro modello di società, ora che le distanze fisiche sono state annullate dal Web, dovrebbe essere completamente diverso da quello attuale, un modello che dovrebbe puntare su una società del sapere e sulla ricerca. Ma bisogna che lo Stato, perché solo lo Stato può fare questa cosa, investa risorse nella ricerca scientifica, e nella società del sapere (esattamente l'opposto di quanto sta facendo il Governo).
Occorre innalzare l'obbligo scolastico a 18 anni perché non servono ragazzi di 16 anni da impiegare nei lavori manuali, occorre investire sull'intelligenza, e contemporaneamente in una società che sappia scegliere linee di sviluppo economico diverse da quelle odierne.
Il Consiglio Comunale impegna il Sindaco a
Mettere in atto tutte quelle iniziative in grado di garantire la piena occupazione dei lavoratori in stato di mobilità,
Favorire l’inserimento dei giovani e delle donne nel mondo del lavoro per offrire loro speranze nel futuro:
Sostenere, come soluzione di prospettiva, l’educazione permanente degli adulti, la formazione continua, le iniziative educazionaliFarsi interprete delle esigenze di cambiamento dell’attuale modello di società.
Terni, 22 marzo 2010
Il Presidente del Gruppo RC/CI
Giocondo Talamonti
Luzio Luzzi