No, Oscar Pistorius non è un alieno. Anche se, quando corre in pista non lascia orme umane.


Di umano, invece, ha l’ostinazione a negare che la vita gli abbia tolto qualcosa, e a dimostrarlo a lei, prima che agli uomini.
Una tesi, la sua, quasi indifendibile agli occhi dei più, perché lo obbliga all’evidenza di due protesi applicate su due monconi e che fanno leva su una volontà di ferro.


La sua personale battaglia l’ha già vinta, e poco importa se riuscirà o meno a partecipare alle Olimpiadi di Pechino.Non è contro i “normodotati” che vuole misurarsi.Semmai contro un destino infame, nei cui confronti non vuole cedere di un “passo”.


In questa sua lotta, Pistorius ha dato vita ad una serie di interrogativi d’ordine sociale, sportivo, etico, tecnologico e perfino etimologico.
Che significa, infatti, essere “normodotati”?
C’è da chiedersi se il termine definisca individui che dispongono di strumenti naturali per compiere una data azione, oppure se fa riferimento alla capacità di svolgere una attività “normale” indipendentemente dai mezzi utilizzati.


Per assurdo, perché considerare “normodotata” una persona che si sposta in macchina per percorrere spazi che potrebbe coprire a piedi?
Non sono protesi la racchetta da tennis o la mazza da baseball, il fioretto o l’asta nell’atletica, la moto o il cavallo, la bici o gli sci?
Il fatto è che a partorire il termine siano stati proprio i “normodotati”.
I quali sono prodighi di definizioni pseudo- etiche, come “diversamente abile”, “portatore di handicap”, “disabile”, per marcare una differenza esteriore, piuttosto che sostanziale dell’uomo e a creare categorie, gruppi, settori.


Questi maestri della discriminazione annacquata non possono accettare che venga contaminato lo Sport da chi non ha diritto ad accedervi in virtù della diversità.Era successo anche ad Hitler in occasione delle Olimpiadi di Berlino, del 1938 di assistere alle quattro medaglie d’oro dell’americano James Owens, uno spudorato negro intenzionato a mettere in crisi la superiorità della razza ariana.



Quando avremo il coraggio di dire che lo sforzo dei tanti Pistorius che popolano il mondo non è solo un esempio di coraggio, ma un concreto diritto a partecipare alla vita?


Se tutti saremo in grado di misurare il valore di un’impresa sportiva nelle sue valenze emotive e dare maggior peso all’impegno dell’uomo piuttosto che al risultato ottenuto, allora saremo anche capaci di capire che il faticoso processo di “normalizzazione” avrà offerto nuove opportunità tecnologiche delle quali la società in genere potrà giovarsi.


Soprattutto, potremo sentirci parte di un comunità più umana, più giusta, meno egoista, più solidale, restituendo all’uomo la centralità universale che gli compete, liberandola dai legacci di ogni tipo di diversità, senza più distinzioni di etnia, sesso, religione, ceto e, meno che mai limitazione fisica.


Ing.Giocondo Talamonti