E’ il bello del calcio…

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“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, recita l’articolo 1 della Costituzione. Quindi, dire ad altri: “a lavorare, andate a lavorare…”, non viola alcuna legge di buona creanza, anzi, è perfettamente costituzionale. Tuttavia, occorre fare delle distinzioni: analizzare bene a chi è diretta la frase e chi è che la pronuncia.
Se si tratta di un coro che parte dagli spalti di uno stadio di calcio, all’indirizzo di giocatori svogliati, può essere un invito a provare quanto sia duro il lavoro in fabbrica per portare a casa un millesimo dello stipendio che, di solito, i calciatori prendono per giocare, nonché uno sprone ad avere più rispetto per i soldi del biglietto tirati fuori da chi assiste alle loro mediocrità.


Se, al contrario, a pronunciare la stessa frase è un allenatore, rivolto al pubblico allora l’esortazione diventa offesa; offesa a chi sulle gradinate il lavoro ce l’ha, ma teme di perderlo, al precario che lo vede a sprazzi, all’ostinato che lo cerca senza trovarlo, al giovane che studia con tante paure per il suo futuro. Ma tant’è; ognuno ragiona con la pancia che ha.


In Africa, presso i bantù, chi nasce con difetti fisici viene additato come portatore di disgrazie sull’intero villaggio: se piove troppo è colpa sua, se piove poco si deve a lui, se manca il cibo se ne deve far carico subendo una serie di violenze verbali, disprezzo, riprovazione e isolamento dal gruppo. Però, a ben guardare, il poverino, che s’immola senza fiatare, svolge l’importante funzione sociale di scaricare le tensioni della comunità. E lo fa per di più gratis.


Nella civiltà occidentale, ma per essere più esatti in quella italica, la poco invidiabile funzione di parafulmine è tradizionalmente svolta da arbitri e allenatori di calcio, i quali nascono anch’essi con evidenti vizi genetici.


Si dice che i primi siano partoriti già con le corna, sgambettino in modo compulsivo e che siano amorevolmente allevati a decidere in fretta ogni cosa, senza guardar troppo se in maniera esatta o sbagliata; i secondi, pure segnati da un destino ineluttabile, vengono alla luce già provvisti di collanina da cui pendono corni rossi, gobbetti, zampette di lepre, numeri scaramantici, acquasantiere in miniatura, calzini spagliati, ecc.


Da quel momento, vengono addestrati alla sopportazione, alla precarietà professionale, all’attacco mediatico di opinionisti, giornalisti e giornalai.


La differenza fra i bantù africani e i predestinati nostrani è che, a parità di insulti, quelli di casa nostra prendono milioni di euro.

E in virtù di questa magnanima elargizione, la nostra cosiddetta civiltà pretende che i beneficiati del calcio accettino le critiche di chi paga e non si mostrino arroganti, presuntuosi o stizzosi. Anche perché, per quanto un allenatore si dia da fare nel distribuire verità e assiomi, moduli e schieramenti, tattiche e strategie, la scienza che sottende alla pratica calcistica non è affatto matematica, anzi consente ad ogni cretino di dire la sua senza rischio di essere smentito da un riscontro obbiettivo.


E’ il bello del calcio e la ragione del suo successo planetario. E’ un po’ come una certa pelle che si adatta elasticamente ai cambiamenti di volume e alle sollecitazioni.



Si vocifera che per vincere occorre preparare un terreno simile a quello che precedette gli ultimi mondiali vittoriosi dell’Italia, affrontati sull’onda dello screditamento internazionale per “calciopoli”.Se fosse veramente così, aspettiamo. Ma se l’impresa non dovesse accadere, qualcuno dovrebbe chiedere ospitalità in un villaggio bantù.


Ing. Giocondo Talamonti