In risposta a MELQUIADES: Binomio arte /murales e binomio Sicurezza/Protezione


Rispondo con piacere alle osservazioni avanzate da un anonimo interlocutore apparse sul sito http://melquiades.noblogs.org/ a proposito di murales cittadini.

Sarà forse l’età, sarà forse questo dannato saio di educatore che mi porto addosso, a farmi apparire poco indulgente nei confronti di chi disprezza i beni della comunità.
Concedere e chiudere occhi sull’imbrattamento continuato, alleggeriti nella responsabilità dalla speranza e dal dubbio che qualche figura sui muri o sui treni possa rivelare un Picasso depresso o un Van Gogh scontroso, mi sembra riduttivo.

Mi ricorda quella coppia di amici con due figlioletti il cui passatempo preferito era quello di tracciare segni sui muri dell’abitazione con pennarelli acquistati e regolarmente reintegrati dopo l’esaurimento dalla mamma, sostenitrice della teoria che quei graffiti nascondessero il dramma esistenziale di Stefano (2 anni) e l’inno alla vita di Giulietta (3 anni).
Il papà che si faceva un mazzo così in fabbrica per poco più di 1000€, alla spesa dell’affitto e dei pennarelli, aggiungeva con altrettanta regolarità quella per la tutina.
A riprova che non si trattasse di irresponsabili spinte creative o di impulsi incontenibili per l’arte, stava il fatto che dedicare loro una sola parete della casa per sfogare l’istinto allo sfregio, non era stato sufficiente.
La consorte pseudo-artista delusa, ma non pentita, era per la libertà d’espressione, per cui, girovagare per la casa era loro concesso.

Per farla breve la storia si concluse con lo sfratto e quattro schiaffoni. Alla mamma.
Al mio interlocutore che mi chiede quale sia la differenza fra sicurezza e protezione, dirò che in gran parte dei contesti che vedono i termini protagonisti, i due si equivalgono.
E’ vero che la sicurezza ha bisogno della paura, del sentirsi continuamente minacciati nella propria integrità fisica e psicologica, ma il terrore di sentirsi esposti al pericolo è la ragione per cui la lista degli oltre 1000 morti sul lavoro all’anno, non aumenta oltre i limiti di questa tragedia nazionale.
“Proteggere” è l’azione di chi è demandato a dare “sicurezza”, ma si origina sempre da una paura.
Il senso di “isolamento” in cui si scopre chi attiva un processo di “sicurezza”, è effettiva, ma è il prezzo da pagare alla sopravvivenza.

La sua accezione negativa si supera se da “passiva” si è capaci di trasformarla in attiva.
Se non fosse così l’umanità sarebbe decimata.
Molto dipende anche dal contesto in cui un individuo opera ed agisce. Differente è l’esposizione al rischio di chi lavora otto ore al giorno ad una pressa meccanica da chi consegna documenti da un ufficio all’altro di una stessa azienda. Ma anche chi, come un pensionato, un disoccupato, una casalinga o un barbone, vive per piacere o necessità gli spazi urbani, ha diritto alla sicurezza in città.
Deve, cioè, sentirsi “protetto”.

La protezione è un concetto convenzionale prima che pratico e quando assume valenza sociale non può prescindere dal rispetto di regole comuni, altrettanto convenzionali e variabili da una cultura ad un’altra.
Regole significano divieti, educazione, abitudine a condividere con altri beni comuni, atteggiamenti che vanno dal raccogliere la cacca del proprio cane da un marciapiede, al mantenimento della pulizia in città, muri compresi.

Una norma, una legge, una disposizione non può identificarsi con la repressione della libertà individuale.
E’ un assunto pericoloso che non attiene alla morale collettiva, ma supporta solo l’istinto egoistico dell’uomo.
Comunque libero di realizzare i suoi impulsi in ambiti confinati alla sua sola presenza.
Giocondo Talamonti