L’occupazione giovanile è in crescita…chiediamoci perchè



L’occupazione giovanile è in crescita…chiediamoci perchè

Il tasso di disoccupazione in Italia ha raggiunto livelli allarmanti: 9,2%, quasi due milioni e mezzo di persone sono senza lavoro. E’ il prezzo che il mondo occidentale sta pagando alla crisi.


Ma la tragedia che affligge il nostro paese sta nelle percentuali da sottosviluppo che riguardano l’occupazione giovanile. Un giovane su tre non ha impiego; molti hanno rinunciato a cercare un lavoro, aggravando, se possibile, dati già inquietanti. In questo caso, le colpe non vanno imputate solo alla crisi globale, perché la media dei paesi membri dell’Europa è di dieci punti più bassa della nostra: 21,2% contro 31,4%.


I valori rilevati meritano un’analisi minuziosa che individui i motivi che stanno alla base della nostra incapacità di offrire opportunità di accesso al mondo del lavoro alle giovani generazioni.


Il primo elemento che colpisce è l’assenza di programmazione, sia a livello centrale che locale. Manca un sistema organizzato che indichi ai ragazzi in età scolare quali sono i settori che offrono prospettive occupazionali nel medio periodo (3 – 5 anni), quali sono le tendenze dell’economia in genere e di quella locale, dove indirizzare la propria formazione per disporre di maggiori potenzialità lavorative.


Tale carenza informativa e valutativa produce danni economici incalcolabili, perché disperde risorse finanziarie investite per formare individui destinati a settori privi di domanda o dove l’offerta supera la capacità di assorbimento.


Una programmazione così intesa, coincide con il concetto di ‘orientamento’, vale a dire l’elaborazione di indicazioni provenienti da politica, economia, istruzione e formazione sulle potenzialità di sviluppo di una determinata area socio-economica armonizzate con le risorse umane necessarie a dare risposta alla crescita di quel territorio.


Attualmente, il compito di suggerire ai giovani che escono dalla scuola dell’obbligo quale percorso formativo intraprendere, è affidato alle cure materne delle insegnanti di lettere, spesso all’oscuro di strategie di mercato, le quali prendono come unico riferimento le inclinazioni del ragazzo, dedotte dai giudizi acquisiti in sede di scrutinio di classe.


Più che di ‘orientamento’, questa operazione può essere definita di ‘smistamento’. La confusione è amplificata dalle famiglie, le quali, prive anch’esse di informazioni utili a ipotizzare i campi di maggior sviluppo occupazionale, decidono di far intraprendere ai propri pargoli indirizzi di studio condizionandoli alla scelta fatta dal vicino di casa, o dall’amichetto del cuore.


Alla fine del liceo, ci si iscrive all’università, perché si sa che un diploma liceale non serve a niente, se interrotto nella proiezione universitaria. In questa fase, i già tragici effetti patiti si amplificano nuovamente. La scelta della facoltà è fatta ‘a naso’ o, nella migliore delle ipotesi, suggerita da disposizioni individuali. Elemento questo, che non mette al riparo dall’insuccesso professionale, dato che in assenza di una strategia di programmazione le opportunità di trovare occupazione al conseguimento della laurea sono misere.


Senza contare che l’accesso alla facoltà prescelta, grazie proprio all’assenza di informazioni sulle linee di sviluppo del paese, è sottoposto all’umiliazione del numero chiuso, di quiz fantasiosi che determinano ingressi o esclusioni casuali.
Sono queste le circostanze che obbligano chi ha interessi a intraprendere studi di medicina a ripiegare su scienze politiche, frustrando progetti e energie.


Il compito dell’orientatore è complesso e non può gravare esclusivamente su un impegno individuale. Deve, cioè, saper lavorare in gruppo, confrontandosi sistematicamente con operatori economici e analisti di settore. I risultati che scaturiscono devono avere la massima accessibilità da parte delle famiglie interessate al futuro dei propri figli, perché in totale libertà sappiano quali siano gli indirizzi economici della realtà nazionale e locale e perché, sulla base dei dati in possesso scelgano il percorso formativo più adatto al ragazzo e alle potenzialità occupazionali.


Un esempio eclatante l’ha fornito la regione veneta lamentando la difficoltà a reperire sul mercato del lavoro un numero consistente di tecnici metallurgici e meccanici. Ma senza allontanarci troppo, anche la nostra dovrà, a breve, affrontare la medesima situazione, visto che gli studenti iscritti al corso di chimica dell’ITIS sono stati solo cinque. Un territorio che ha fra le sue vocazioni industriali la siderurgia e la chimica deve poter contare su un ricambio sistematico. Se questo non avviene è perché l’informazione è assente, e assente è l’orientamento. C’è da chiedersi quanto costerà alla società riconvertire le abilità acquisite in una fase successiva al diploma, sia in termini economici che di tempo.


Il tema dell’orientamento assume dimensioni enormi per la crescita del territorio e deve poter contare sul coinvolgimento di rappresentanti delle istituzioni e di esperti. Una commissione permanente formata da analisti economici, con il supporto di docenti, opportunamente preparati al ruolo, consentirebbe di estrapolare le tendenze economiche locali, con risultati successivamente portati a conoscenza delle scuole e delle famiglie di ragazzi interessati alla scelta.


All’obiezione, secondo cui una società così programmata nega i diritti alla libera scelta dei cittadini, si può contrapporre che l’orientamento non è una legge ma solo un’indicazione utile ad individuare in quale direzione il treno socio-economico si muove e quali sono i suggerimenti per poterci salire al volo, salvaguardando il diritto di ciascuno di corrergli dietro senza sapere dove e quando si fermi.


Ing. Giocondo Talamonti