Nelle prove pratiche di suicidio, Riccardo Riccò ha affossato tutto il ciclismo. Da appassionato di questa disciplina, avevo creduto che la squalifica di due anni, affibbiatagli per doping al Tour del 2008, gli fosse stata sufficiente per meditare sul vizietto. Ma invano. Beccato a iniettarsi il suo stesso sangue, mal conservato in frigo dopo abbondante ossigenazione, il gesto richiama alla mente una mammona intenta a procurare un aborto clandestino. Immaginarlo lì, fra aghi e lacci, buste di sangue e aste per ipodermoclisi è stato, anche per me, come ricevere un calcio nel bassoventre, sferrato con tutta la forza dalla mia stessa ingenuità. Qualcuno potrebbe accusarmi di insistere con troppo olimpica credulità a sperare nel recupero di una pratica continuamente sputtanata da trasgressioni, ma la passione per questa disciplina e soprattutto la fiducia nello sport e negli uomini che lo praticano non riesco a spegnerle.
Riccò deve scomparire da questo e da ogni altro sport dovesse venirgli in mente di praticare per guadagnarsi la vita. Eppure, nel prendere atto della gravità del gesto, occorre fare qualche distinguo e chiedersi se la colpa è tutta sua.
Viviamo un contesto sociale, oltre che sportivo, in cui arrivare secondo o ultimo non fa molta differenza. Se non vinci, non sei nessuno. Gli sponsor, i fan, i giornali e le tv ti spalancano le braccia solo se arrivi primo o se sei in grado di lottare, sbagliando al massimo per il 50%, per il podio più alto. Sono pochissimi, fra gli sportivi, quanti sanno chi è arrivato secondo al Giro d’Italia del 2010, oppure al Tour de France, o alla Vuelta di Spagna. E’ materia da statistiche, utile ai commentatori TV per passare un po’ di tempo in attesa dei corridori. Non c’è sponsor disposto a cacciare un euro per una squadra che, in un modo o nell’altro, non sia in grado di garantire un minuto di pubblicità televisiva al marchio che la sostiene finanziariamente. Ad assicurare la visibilità della maglia concorrono direttori sportivi, massaggiatori, allenatori ma, soprattutto medici. Farmacologi professionisti, maghi della provetta, studiosi di chimica, ladri di sogni e di passioni in grado di far scomparire le prove di lenti omicidi e alimentare illusioni nei giovani atleti. Costoro sono, o meglio, dovrebbero essere i primi ad essere radiati e messi in condizioni di non fare più danni. A far loro compagnia dovrebbero andare i giornalisti, pronti ad esaltare sempre e solo il vincitore e passare sotto silenzio i gesti sportivi, specie quando ispirati da valori atletici ed etici. A ruota, dovrebbero seguire gli sponsor, con qualche attenuante per la natura mercenaria delle loro scelte. Un ruolo determinante nel processo degenerativo di questa disciplina è da addebitare alle norme che regolano lo svolgimento delle gare nel mondo e in Italia. Mi riferisco alla durata delle corse, all’esasperazione delle difficoltà per aumentare lo spettacolo e il richiamo degli spettatori. Il corridore che voglia superare la lunga serie di fatiche è obbligato a ricorrere a scorciatoie che con lo spirito decubertiano hanno a che fare come il diavolo con l’acqua santa.
La condanna di un quadro oramai decomposto, quanto a correttezza e lealtà, è lecita da parte del pubblico che pretende di non essere ingannato da false prestazioni; condanna alla quale non devono aggregarsi, però, i colleghi ciclisti, troppo solleciti, come nel caso di Riccò a prendere fariseiche distanze dal compagno, schifati dalla colpa, come se loro fossero immuni da interventi o pericoli dello stesso tenore. E’ l’aspetto più insopportabile, falso e vergognoso, sia per la loro che per la dignità del collega, indicato come un appestato, fingendo di essere migliori.
Un ciclismo così non serve a nessuno. Non serve ai giovani, che hanno bisogno di ben altri esempi; non serve allo sport, che vede offesi i suoi principi vitali; non serve neppure agli sponsor che rischiano di veder penalizzata la vendita dei propri prodotti; non serve al giornalismo, obbligato a dare immagini edificanti inesistenti, o a ignorare il problema. La corsa, quella vera non è più sulle strade, ma nei laboratori, dove si fronteggiano i chimici della morte, impegnati a scovare nuove sostanze non intercettabili e controllori rassegnati a giocare il ruolo di eterni perdenti.
L’intera società, con la famiglia in testa, deve guardare a nuovi orizzonti, a modelli edificanti, utili a restituire alla vita individuale e collettiva significati perduti. Dovrà affiancarsi a questo progetto di recupero la Scuola, alla quale dovrà essere riconosciuta un’autorità sottrattale a vantaggio di un menefreghismo diffuso e scambiato per diritto di libertà.
Ing. Giocondo Talamonti